Un epilogo che ai più sembrava scontato, ad altri, irriducibili, del tutto inatteso. La vicenda Insigne, che dal primo luglio giocherà per il Toronto FC, ha spaccato del tutto la tifoseria napoletana, sia per quanto riguarda i tifosi legati al capitano napoletano, e ancor di più per gli “orchestrali” di presidente e società stessa.
L’addio dello scugnizzo di Frattamaggiore era nell’aria, ma nessuno voleva crederci. Hanno sorpreso tempi e modi della vicenda, ma gli addetti ai lavori avevano fiutato che lo strappo stesse per consumarsi. E questo da tempo. Man mano che si avvicinava la scadenza dell’accordo le possibilità di un rinnovo si facevano sempre più remote. Ma alla fine chi ha perso di più in questa vicenda? Il calciatore, il presidente o la tifoseria azzurra? Alla fine hanno perso tutti.
CASO INSIGNE, DIECI ANNI DI PASSIONE E INCOMPRENSIONI
Vediamo perché. Partiamo da Insigne. Il capitano azzurro lascia Napoli, a tutt’oggi forte delle 114 reti e 91 assist in 10 anni con la maglia azzurra. Un bel bottino non c’è dubbio. Tuttavia Lorenzo non ha mai aperto tutti i cuori della torcida azzurra, un po’ per il suo carattere a volte schivo, altre arrogante.
Un po’ per il suo rendimento non sempre all’altezza delle sue doti tecniche, figlio anche di una personalità mai dimostrata appieno sul campo. Un po’ anche per la sua provenienza e la successiva invidia per essersi arricchito, e per questo molti con la puzza sotto al naso gli hanno messo il soprannome ‘o cafone, proprio perché originario dell’hinterland partenopeo.
Ma lo strappo vero e proprio che ha portato all’epilogo, vede due date fatidiche nella mente dei tifosi: 5/11/2019 e 23/5/2021. La prima è nota come l’ammutinamento dopo Napoli-Salisburgo, fase a gironi di Champions League, allorquando con un Napoli ancora non qualificato, ma in crisi di risultati anche in campionato, si consumò lo strappo tra squadra e società con i giocatori che si rifiutarono di andare in ritiro punitivo nel post partita e Insigne fu additato come uno dei capipopolo della rivolta.
La seconda, solo qualche mese fa, con uno spogliatoio spaccato e con Gattuso con le valigie pronte, nella famigerata gara pareggiata col Verona e che costò la qualificazione alla Champions. Anche lì si mormorò di una rivolta di una parte del gruppo squadra che aveva giocato contro il presidente dopo aver avuto un aspro confronto improduttivo con lui nei giorni antecedenti il match sulla questione premi per la qualificazione alla massima competizione europea.
Voci mai confermate da nessuna delle parti in causa. E l’Europeo vinto, giocando belle partite con due gol realizzati, sembrava aver ridato verve alle chances di rinnovo di Lorenzo. E invece nulla. La società, che aveva deciso la riduzione del monte ingaggi, non si è mossa di un metro, l’offerta ricca per il calciatore è arrivata e l’addio è stato inevitabile. Anche se andare a giocare nella MLS per lo scugnizzo azzurro sarà un ridimensionamento. Tanti soldi sì, ma visibilità poca, e il rischio di uscire dagli obiettivi del ct Mancini.
C’è poi il presidente. Lui non vedeva l’ora di sbarazzarsi dello scomodo giocatore e di proseguire la causa per i diritti d’immagine per la serata del dopo Salisburgo.
Come sempre, da buona persona per finta vicina ai tifosi napoletani e alla napoletanità, per lui Insigne era diventato un peso. Ancora di più per quello che percepiva. E alla fine ha fatto la fine dei suoi predecessori, nell’ordine Lavezzi, Cavani, Higuain.
Con la differenza stavolta che De Laurentiis dalla sua cessione non ha ricavato un euro, e questo per volontà di Insigne di andare a scadenza naturale del rapporto. Aurelio non ha mai sopportato le prime donne, la prima donna è lui, Insigne lo stava diventando, o lo era diventato del tutto. E questo non poteva permetterlo. I suoi approcci per il rinnovo sono stati timidi, giusto per giustificarsi con la tifoseria e far ricadere la colpa del mancato prolungamento tutta su Lorenzo. Una tattica nota supportata dagli orchestrali della comunicazione del presidente. Ma un gioco ormai noto a tutti.
Infine i tifosi, orfani del loro capitano ma divisi sulla opportunità di modi e tempi di comunicare l’avvenuto strappo. Da una parte quelli riconoscenti per le sue imprese e che hanno individuato in Spalletti il boia della situazione. Dall’altra i contabili della società che immaginano, ma saranno smentiti, che questo non sia un ennesimo gesto di ridimensionamento e che i soldi risparmiati verranno reinvestiti in chissà quale fenomeno.
Vedremo chi avrà ragione.
MASSIMILIANO BONARDI